domenica 13 settembre 2009

LINEE GUIDA PER LA CHIRURGIA CONSERVATIVA DEGLI ARTI

LINEE GUIDA PER LA CHIRURGIA CONSERVATIVA DEGLI ARTI
Autore: Prof. Fabio Lazzaro

Vi sono alcuni principi basilari che debbono orientare per un tipo di chirurgia conservativa nei tumori dell'osso: 1) la possibilità di una recidiva locale non deve essere maggiore e la sopravvivenza non deve essere minore che negli interventi di amputazione. 2) il tipo di intervento chirurgico o il trattamento delle sue eventuali complicanze non deve essere tale da ritardare le terapie adiuvanti. 3) la ricostruzione deve essere duratura e non associata ad un maggiore numero di complicazioni locali che richiedano procedure chirurgiche aggiuntive e frequenti ospedalizzazioni. 4) la funzione dell'arto deve avvicinarsi a quella ottenibile con una amputazione, nonostante la immagine corporea, le preferenze del paziente e lo stile di vita possano influenzare la decisione. Lo stadio di malattia del paziente (lesione intra o extracompartimentale, presenza di metastasi) deve essere pure valutato prima di prendere in considerazione la possibilità di eseguire un intervento conservativo. Alcuni elementi della malattia possono, comunque, influenzare l'orientamento terapeutico (controindicazioni relative), ed in particolare: 1) l'inglobamento da parte del tumore delle strutture del fascio vascolonervoso principale con impossibilità ad eseguire un by-pass vascolare: 2) la presenza di una frattura patologica il cui ematoma abbia violato le barriere compartimentali: 3) una biopsia eseguita in maniera inappropriata o presenza di complicazioni in sede bioptica: 4) una grave infezione del campo operatorio: 5) l'immaturità scheletrica con prevedibile severo difetto di lunghezza dell'arto: 6) l'esteso interessamento muscolare o dei tessuti molli: 7) una scarsa risposta alla chemioterapia preoperatoria.

LA CHEMIOTERAPIA
La chemioterapia preoperatoria multifarmaco, detta anche neoadiuvante, introdotta alla fine degli anni 70 da Rosen per l'osteosarcoma, viene iniziata non appena ottenuta la diagnosi istologica definitiva e aver completato la stadiazione del paziente. La chemioterapia aiuta a controllare la fase sistemica della malattia agendo al livello delle possibili micrometastasi, incrementando così in maniera determinante il tasso di sopravvivenza del paziente.(sino al 60-70% dei casi). La fase neoadiuvante delle terapia, inoltre, agisce al livello della zona reattiva presente intorno alla massa tumorale, distruggendo i microfocolai neoplastici presenti alla periferia della lesione principale, facilitandone l'escissione. Così, in alcuni pazienti con controindicazioni relative alla chirurgia conservativa, un favorevole risultato della chemioterapia preoperatoria può portare a riconsiderare tale possibilità chirurgica. Nei casi opportuni, stabiliti in base alla diagnosi istologica, la chemioterapia adiuvante multifarmaco viene continuata nei 6-12 mesi successivi all'intervento. Va precisato che, purtroppo, non tutti i tumori maligni dell'osso (in particolare il condrosarcoma) sono chemiosensibili.

LA RADIOTERAPIA
Il ruolo della radioterapia nella routine terapeutica dei sarcomi ossei è attualmente marginale, mentre vi è ancora una sua indicazione in casi particolari, quali il controllo locale di lesioni inoperabili degli arti, nei sarcomi della pelvi e vertebrali, come terapia adiuvante nelle sedi di resezione ove non si siano ottenuti margini ampi e nella terapia palliativa dei sarcomi metastatici.
LA CHIRURGICA ORTOPEDICA ONCOLOGICA (FASE ABLATIVA E RICOSTRUTTIVA) Quando indicata, dopo 8-12 settimane di chemioterapia neoadiuvante preoperatoria, viene eseguita la asportazione ampia della lesione al fine di ottenere il controllo locale della malattia. Il raggiungimento di margini indenni da lesione rappresenta l'elemento fondamentale nella chirurgia oncologica. Per definizione, una resezione ampia deve comprendere uno strato di tessuto sano intorno alla lesione, cosicché i difetti scheletrici residui si presentano solitamente molto ampi, mediamente di 15-20 centimetri, in relazione alla dimensione della lesione e alla necessità di ottenere margini adeguati. La fase di ricostruzione del difetto scheletrico residuo si avvale di diverse opzioni possibili. L'età , la sede del tumore e l'estensione della malattia restringono spesso la lista delle alternative chirurgiche appropriate; protesi modulari, composite o trapianti massivi osteorticolari nel caso si debba sacrificare l'articolazione oppure innesti ossei autoplastici, vascolarizzati e non, o omoplastici, nelle emiresezioni o resezioni segmentarie in sede non articolare. Dopo la fase ricostruttiva, possono essere necessarie trasposizioni muscolari, per garantire una adeguata funzione motoria dei segmenti articolari, e lembi di copertura miocutanei, al fine di per ottenere una adeguata e definitiva copertura della sede di impianto, evitando complicazioni della ferita chirurgica e pericolose infezioni locali.

PROTESI MODULARI
I sistemi protesici modulari attualmente disponibili sono sufficientemente flessibili da adattarsi alle necessità ricostruttive in relazione alla entità finale del difetto scheletrico, determinabile sono intraoperatoriamente. Un programma riabilitativo rigoroso ed intenso può essere iniziato precocemente dopo l'impianto, consentendo un recupero articolare e la ripresa del carico in tempi brevi. Il tasso di infezione postoperatoria e di trasmissione di malattie è minore che nel caso di impiego di innesti ossei di banca; non esiste poi alcun problema di integrazione dell'impianto con l'osso ospite. La durata dell'impianto nel tempo, le complicanze ed il risultato funzionale possono variare in relazione alla sede anatomica, al tipo di protesi ed alla tecnica di fissazione. Infatti, può verificarsi instabilità articolare, mobilizzazione asettica, infezioni tardive, cedimento meccanico delle componenti per fatica, usura dei materiali. Inoltre, la reinserzione delle strutture muscolotendinee alle componenti metalliche si presenta sempre difficoltoso.

TRAPIANTI E INNESTI OSSEI
Gli innesti ossei massivi costituiscono una metodica di ricostruzione di tipo biologico, con migliori teoriche potenzialità di durata nel tempo, elemento che li rende spesso preferibili agli impianti protesici. Altri vantaggi sono rappresentati dalla possibilità di conservare la porzione articolare sana e di stabilizzare la neoarticolazione, ricostruendone le strutture capsulari e legamentose. Dopo 3-5 anni dall'impianto, gli innesti vengono solitamente ben integrati, nonostante la frequente necessità di interventi chirurgici aggiuntivi volti ad ottenerne una valida stabilizzazione. Per questo motivo sono spesso preferiti gli impianti protesici. La potenziale migliore stabilità e funzionalità a lungo termine degli innesti ossei deve essere ben valutata nei pazienti giovani, esposti al rischio di multipli interventi di revisione protesica nel corso della loro vita. In alcune casistiche, le complicanze raggiungono quasi il 50% degli impianti; in particolare, sono rappresentate infezioni, fratture, instabilità articolare, ritardo di integrazione all'interfaccia innesto-osso ospite. A distanza di 5-10 anni possono poi comparire, nel 15% circa degli impianti osteoarticolari, importanti fenomeni di degenerazione artrosica. Deve essere comunque segnalato che gli innesti ossei massivi intercalari forniscono eccellenti risultati al lungo termine in oltre l'80% dei casi.

PROTESI COMPOSITE (TRAPIANTO + PROTESI METALLICA)
L'impiego di un impianto protesico di tipo composito può sfruttare gli innegabili vantaggi forniti sia dalle protesi che dagli innesti messivi diminuendo i rischi presenti nelle metodiche impiegate singolarmente. L'osso di banca permette di ricostruire la struttura scheletrica con ottimale reinserzione degli elementi muscolo-tendinei ed offre una buona stabilità della neoarticolazione. La componente protesica consente di evitare i potenziali processi degenerativi articolari, spesso causa di successivi ulteriori interventi di protesizzazione.

TECNICHE CON PARTICOLARI INDICAZIONI
a) Innesti autologhi vascolarizzati (con tecnica microchirurgica) Gli innesti ossei autologhi vascolarizzati possono essere prelevati dalla cresta iliaca, dalle coste, dalla scapola o dal perone, anche se solamente quest'ultimo viene eseguito per colmare gli estesi difetti conseguenti alle ampie resezioni scheletriche in ortopedia oncologica. Se paragonati agli innesti massivi, gli autotrapianti vascolarizzati offrono una più rapida integrazione, maggiore resistenza iniziale dovuta alla ipertrofia secondaria dell'innesto, in accordo con la legge di Wolff, e assenza di problemi immunologici o di trasmissione di malattie. Questo metodo di ricostruzione biologica, ideale per bambini o giovani adulti, possiede il teorico vantaggio di non dovere richiedere successive revisioni chirurgiche. Altre indicazioni degli innesti sono la ricostruzione in campi chirurgici poco vascolarizzati, quali quelli sottoposti a precedenti trattamenti radioterapici, o in quei casi nei quali è prevedibile un ritardo della guarigione a livello della sede di osteosintesi, a causa di radio e/o chemioterapia. Un innesto massivo di banca può essere anche associato al perone vascolarizzato, in modo da consentirne una migliore rivitalizzazione nel tempo. I principali svantaggi degli innesti vascolarizzati sono rappresentati dalla maggiore durata dei tempi chirurgici, dalla morbidità in sede di intervento (fratture, infezioni, ritardo di consolidazione, fratture da stress) e da limitazioni connesse alle dimensioni dell'innesto disponibile. b) Artrodesi Nel caso di resezioni extraarticolari o di estese demolizioni muscolari, tali da compromettere la funzione articolare residua, o quando sia indispensabile ottenere una assoluta stabilità dell'arto, vi può essere l'indicazione alla artrodesi, la quale unisce la suddetta duratura stabilità all'assenza di dolore locale. La fusione articolare può essere ottenuta utilizzando anche innesti massivi, innesti autologhi liberi o vascolarizzati, fissazione esterna con trasporto osseo o con la combinazione di tali metodiche. c) Protesi espandibili La protesi espandibili sono state sviluppate alla fine degli anni 80 nel tentativo di prevenire le inevitabili eterometrie degli arti nei pazienti in accrescimento. Tali impianti sono però di uso limitato, richiedendo contunui interventi chirurgici ed esponendo, nel 50% circa dei casi, a complicanze quali infezioni, mobilizzazioni o cedimenti dell'impianto protesico e complicanze neurologiche. d) Giroplastiche La tecnica della giroplastica, o plastica rotazionale, è riservata a quei pazienti scheletricamente immaturi, molto giovani, sottoposti ad ampie resezioni del ginocchio con possibilità di mantenere l'integrità del nervo sciatico. La tecnica è associata ad una bassa incidenza di complicanze, ad una durevole e funzionalmente valida ricostruzione ed al mantenimento della crescita dell'arto, che permette, in età adulta, una correzione della ipometria mediante protesi esterna senza dover ricorrere ad interventi chirurgici ulteriori. La proposta di questo tipo di intervento è spesso rifiutata o male accettata, cosicché si rende necessario un esauriente colloquio con il paziente ed i suoi familiari affinché possano chiaramente comprendere i vantaggi e l'aspetto "estetico" dell'arto ricostruito, riducendo così problemi psicologici o insoddisfazioni postoperatorie. Anche l'incontro con pazienti sottoposto ad analogo intervento risulta essere utile. e) Fissazione esterna con osteogenesi distrazionale L'allungamento dell'arto mediante osteogenesi distrazionale o trasporto di segmenti ossei riveste una limitata utilità se impiegata primariamente nella ricostruzione. Estesi difetti ossei sono infatti difficili da colmare con questa tecnica, richiedendo prolungati periodi di trattamento, associati a frequenti complicanze e scarsi risultati funzionali. Le tecniche di allungamento sono invece utili in aggiunta ad altri metodi ricostruttivi, per colmare piccoli difetti scheletrici o per correggere le eterometrie residue, ad accrescimento scheletrico terminato.

ASPETTI PARTICOLARI DELLA CHIRURGIA NEL PAZIENTE PEDIATRICO
In età pediatrica, devono essere sottolineati problemi aggiuntivi rappresentati dalle ridotte dimensioni dei segmenti scheletrici da protesizzare, con conseguente difficoltà nel reperimento di componenti protesiche adeguate, e dai processi di accrescimento cui il segmento operato andrà incontro. Il coinvolgimento articolare da parte di un sarcoma dell'osso è piuttosto raro, dato che le cartilagini di accrescimento e di incrostazione possiedono una intrinseca resistenza alla espansione della malattia; è possibile comunque che strutture anatomiche legamentose (ad esempio i legamenti crociati del ginocchio) possono guidare la crescita del tumore lungo di essi. Più frequente è la contaminazione articolare da biopsia non correttamente eseguita, per una frattura patologica del segmento interessato o per invasione diretta attraverso la capsula articolare. L'immaturità scheletrica al momento dell'intervento può comportare ipometrie anche di considerevole entità le quali, in casi estremi, possono far orientare l'indicazione chirurgica verso un trattamento demolitivo piuttosto che conservativo. Inoltre non deve essere dimenticata l'interferenza provocata dalla radioterapia sull'accrescimento anche delle strutture muscolo-tendinee, con conseguenti retrazioni e contratture. Per fare degli esempi, nei sarcomi del cingolo pelvico, dove la crescita ossea femorale avviene per circa l'80% a livello della sua porzione prossimale, non è da escludere l'indicazione ad una emipelvectomia piuttosto che una escissione ampia, magari fatta seguire da radioterapia. Anche la crescita della tibia avviene per l'80% circa nella porzione prossimale, cosicché dalla protesizzazione del ginocchio può risultare una ipometria della gamba. L'impiego di componenti protesiche tibiali non cementate, che non interferiscono con la zona metafisaria o elementi con fittone a superficie liscia, consente di evitare tale evenienza. L'alternativa a tali tecniche rimane l'innesto artrodesizzante. A livello dell'arto superiore una amputazione anche molto alta è da preferirsi alla disarticolazione, poiché la crescita omerale avviene per l'80% a livello prossimale. Nelle ossa lunghe, quando possibile, la resezione intercalare con risparmio della zona di accrescimento e ricostruzione mediante innesto massivo unito al perone autologo vascolarizzato consentono di limitare le ipometrie residue. Una ulteriore possibilità ricostruttiva è fornita dall'impianto del perone autologo vascolarizzato mantenendone la epifisi prossimale con la zona di accrescimento. Tale tecnica, ancora di limitato impiego, ha mostrato promettenti risultati. Attualmente è comunque possibile valutare la possibilità di accettare una eterometria, anche di notevole entità, programmando uno o più interventi di allungamento, mediante l'impiego di fissatori esterni.

CONCLUSIONI
In conclusione, è comunque doveroso segnalare che un intervento di "limb salvage" deve essere considerato ogniqualvolta ve ne siano le condizioni, consci dell'incremento del rischio di recidiva della malattia (da considerarsi elemento prognostico assolutamente sfavorevole "quoad vitam"specie nei sarcomi ad alto grado), della morbilità futura (per l'inevitabile usura dei materiali) e della non sempre migliore efficienza funzionale finale.

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