domenica 13 settembre 2009

PAZIENTI CON OSTEOMA OSTEOIDE TRATTATI CON TECNICA MINI-INVASIVA

PAZIENTI CON OSTEOMA OSTEOIDE TRATTATI CON TECNICA MINI-INVASIVA


CASO N. 1




Notare l'ampia cicatrice chirurgica di un precedente intervento con tecnica tradizionale (l'osteoma è recidivato nonostante l'intervento aggressivo) paragonata alla incisione puntiforme del successivo trattamento da me eseguito con radiofrequenza (paziente ore guarito)


CASO N.2


Trattamento di osteoma osteoide intracorticale anteriore della tibia


CASO N. 3


Trattamento di osteoma osteoide del versante endostale della tibia al terzo medio posteriore


CASO N. 4


Trattamento di osteoma osteoide intraspongioso del femore prossimale


CASO N. 5


Trattamento di osteoma osteoide della diafisi femorale

L'OSTEOMA OSTEOIDE. DIAGNOSI E TRATTAMENTO.

L'OSTEOMA OSTEOIDE. DIAGNOSI E TRATTAMENTO.
Autore: Prof. Fabio Lazzaro


L'osteoma osteoide è un tumore benigno dell'osso, di derivazione osteoblastica, solitamente molto doloroso, che interessa di preferenza soggetti maschi di giovane età (colpiti in percentuale doppia rispetto alle femmine e di più facile riscontro fra i 5 e i 30 anni di età). Si tratta di una lesione abbastanza frequente (3% di tutti i tumori benigni dell'osso), ma di incidenza complessiva abbastanza limitata, considerando che i tumori dell'osso sono comunque rari.
Localizzato di preferenza nelle ossa dello scheletro degli arti, è raro a livello del tronco, eccezion fatta per le vertebre, specie nella loro porzione posteriore (arco). La sede più interessata è l'arto inferiore, specialmente la sede metadiafisaria del femore prossimale, anche se anche le altre ossa, sia lunghe che brevi (astragalo, calcagno) possono essere colpite.
La lesione,di diametro spesso inferiore ai 10 mm, è circondata da una abbondante zona di osso reattivo, di aspetto sclerotico (foto 1), e può ritrovarsi sia nella struttura ossea corticale (nello spessore (foto 2), verso la superficie periostale (foto 3) o verso quella endostale (foto 4)) che nell'osso spugnoso (foto 5), nel qual caso la reazione sclerotica perilesionale si presenta minima o assente.



foto 1 foto 2 foto 3 foto 4 foto 5


SINTOMI

Il sintomo costante, spesso l'unico, è il dolore, che tipicamente tende ad aumentare durante la notte e ad essere alleviato dall'assunzione di farmaci antinfiammatori non steroidei (aspirina e simili).
Può accompagnarsi a limitazione della funzione articolare e a sinovite cronica qualora sia in prossimità di strutture articolari o a contrattura muscolare paravertebrale con deviazione scoliotica del rachide quando localizzato alle ossa vertebrali.

DIAGNOSI

La diagnosi si basa sull'esame radiografico, che mostra una piccola area di osteolisi, detta "nidus", circondata da una zona di osso sclerotico (foto 6). Il nidus, che si trova al centro di questa lesione, può talvolta essere da questa mascherato e visibile solo mediante un esame TAC( foto 7).
Altro esame indispensabile è la scintigrafia ossea, la quale risulta sempre positiva (foto 8).
La RMN (foto 9) è talvolta meno sensibile della TAC nell'identificare il nidus e può talvolta fuorviare o ritardare la diagnosi qualora non letta da radiologi esperti.





foto 6 foto 7 foto 8 foto 9


TRATTAMENTO TRADIZIONALE


Il trattamento è quasi sempre di tipo chirurgico, ad eccezione di quelle lesioni scarsamente dolorose, che possono esser eseguite nel tempo e controllate dall'assunzione di farmaci antinfiammatori, e consiste nella asportazione del nidus. Dopo tale intervento il dolore regredisce pressoché immediatamente e se il nidus viene completamente rimosso non si verificano recidive della malattia.
La tecnica chirurgica tradizionale consiste nell'eseguire un accesso chirurgico a cielo aperto, esponendo la zona interessata dalla lesione con asportazione dell'osso reattivo, identificazione del nidus e sua rimozione. (foto 10, 11, 12) Trattandosi di un vero e proprio intervento chirurgico, spesso in sedi profonde o articolari, la durata della degenza sarà piuttosto prolungata, in relazione a questi fattori, con necessità anche di terapia riabilitativa successiva.







foto 10 foto 11 foto 12


INTERVENTO CHIRURGICO MINI-INVASIVO
E' possibile evitare il trattamento chirurgico vero e proprio servendosi della termoablazione del nidus con speciale ago a radiofrequenza sotto guida TAC.
In anestesia loco-regionale (talvolta generale se la lesione interessa le ossa del tronco o i cingoli degli arti, cioè spalla o anca) si esegue la centratura del nidus mediante TAC (foto 13 e foto 14) e, tramite un accesso cutaneo praticamente puntiforme, si raggiunge il piccolo nidus (foto 15 e foto 16), il quale, dopo averne prelevato una parte sulla quale effettuare l'esame istologico che confermi in via definitiva la diagnosi clinico-strumentale precedentemente formulata (foto 17), viene sottoposto a necrosi coagulativa mediante applicazione locale di onde elettromagnetiche di media frequenza, 480 KHz circa, grazie ad uno speciale ago collegato ad un generatore dedicato. (foto 18 e foto 19). La durata complessiva della procedura chirurgica, considerando tutte le sue fasi (anestesia, centratura della lesione con la TC, biopsia, infissione dell'ago-elettrodo ed emissione locale di radiofrequenza, è di 45-60 minuti circa. Il paziente viene poi dimesso il giorno successivo. I pazienti eleggibili per il trattamento percutaneo devono presentare l'osteoma osteoide in sedi facilmente accessibili (essenzialmente agli arti) e che siano distanti da strutture vascolari e nervose. In tali casi sarà pertanto preferibile ricorrere alla tecnica chirurgica a cielo aperto. La tecnica mini-invasiva con breve degenza e rapida ripresa funzionale dovrebbe rappresentare dunque il trattamento di elezione ogniqualvolta ne esistano le corrette indicazioni.




foto 13 foto 14 foto 15





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LINEE GUIDA PER LA CHIRURGIA CONSERVATIVA DEGLI ARTI

LINEE GUIDA PER LA CHIRURGIA CONSERVATIVA DEGLI ARTI
Autore: Prof. Fabio Lazzaro

Vi sono alcuni principi basilari che debbono orientare per un tipo di chirurgia conservativa nei tumori dell'osso: 1) la possibilità di una recidiva locale non deve essere maggiore e la sopravvivenza non deve essere minore che negli interventi di amputazione. 2) il tipo di intervento chirurgico o il trattamento delle sue eventuali complicanze non deve essere tale da ritardare le terapie adiuvanti. 3) la ricostruzione deve essere duratura e non associata ad un maggiore numero di complicazioni locali che richiedano procedure chirurgiche aggiuntive e frequenti ospedalizzazioni. 4) la funzione dell'arto deve avvicinarsi a quella ottenibile con una amputazione, nonostante la immagine corporea, le preferenze del paziente e lo stile di vita possano influenzare la decisione. Lo stadio di malattia del paziente (lesione intra o extracompartimentale, presenza di metastasi) deve essere pure valutato prima di prendere in considerazione la possibilità di eseguire un intervento conservativo. Alcuni elementi della malattia possono, comunque, influenzare l'orientamento terapeutico (controindicazioni relative), ed in particolare: 1) l'inglobamento da parte del tumore delle strutture del fascio vascolonervoso principale con impossibilità ad eseguire un by-pass vascolare: 2) la presenza di una frattura patologica il cui ematoma abbia violato le barriere compartimentali: 3) una biopsia eseguita in maniera inappropriata o presenza di complicazioni in sede bioptica: 4) una grave infezione del campo operatorio: 5) l'immaturità scheletrica con prevedibile severo difetto di lunghezza dell'arto: 6) l'esteso interessamento muscolare o dei tessuti molli: 7) una scarsa risposta alla chemioterapia preoperatoria.

LA CHEMIOTERAPIA
La chemioterapia preoperatoria multifarmaco, detta anche neoadiuvante, introdotta alla fine degli anni 70 da Rosen per l'osteosarcoma, viene iniziata non appena ottenuta la diagnosi istologica definitiva e aver completato la stadiazione del paziente. La chemioterapia aiuta a controllare la fase sistemica della malattia agendo al livello delle possibili micrometastasi, incrementando così in maniera determinante il tasso di sopravvivenza del paziente.(sino al 60-70% dei casi). La fase neoadiuvante delle terapia, inoltre, agisce al livello della zona reattiva presente intorno alla massa tumorale, distruggendo i microfocolai neoplastici presenti alla periferia della lesione principale, facilitandone l'escissione. Così, in alcuni pazienti con controindicazioni relative alla chirurgia conservativa, un favorevole risultato della chemioterapia preoperatoria può portare a riconsiderare tale possibilità chirurgica. Nei casi opportuni, stabiliti in base alla diagnosi istologica, la chemioterapia adiuvante multifarmaco viene continuata nei 6-12 mesi successivi all'intervento. Va precisato che, purtroppo, non tutti i tumori maligni dell'osso (in particolare il condrosarcoma) sono chemiosensibili.

LA RADIOTERAPIA
Il ruolo della radioterapia nella routine terapeutica dei sarcomi ossei è attualmente marginale, mentre vi è ancora una sua indicazione in casi particolari, quali il controllo locale di lesioni inoperabili degli arti, nei sarcomi della pelvi e vertebrali, come terapia adiuvante nelle sedi di resezione ove non si siano ottenuti margini ampi e nella terapia palliativa dei sarcomi metastatici.
LA CHIRURGICA ORTOPEDICA ONCOLOGICA (FASE ABLATIVA E RICOSTRUTTIVA) Quando indicata, dopo 8-12 settimane di chemioterapia neoadiuvante preoperatoria, viene eseguita la asportazione ampia della lesione al fine di ottenere il controllo locale della malattia. Il raggiungimento di margini indenni da lesione rappresenta l'elemento fondamentale nella chirurgia oncologica. Per definizione, una resezione ampia deve comprendere uno strato di tessuto sano intorno alla lesione, cosicché i difetti scheletrici residui si presentano solitamente molto ampi, mediamente di 15-20 centimetri, in relazione alla dimensione della lesione e alla necessità di ottenere margini adeguati. La fase di ricostruzione del difetto scheletrico residuo si avvale di diverse opzioni possibili. L'età , la sede del tumore e l'estensione della malattia restringono spesso la lista delle alternative chirurgiche appropriate; protesi modulari, composite o trapianti massivi osteorticolari nel caso si debba sacrificare l'articolazione oppure innesti ossei autoplastici, vascolarizzati e non, o omoplastici, nelle emiresezioni o resezioni segmentarie in sede non articolare. Dopo la fase ricostruttiva, possono essere necessarie trasposizioni muscolari, per garantire una adeguata funzione motoria dei segmenti articolari, e lembi di copertura miocutanei, al fine di per ottenere una adeguata e definitiva copertura della sede di impianto, evitando complicazioni della ferita chirurgica e pericolose infezioni locali.

PROTESI MODULARI
I sistemi protesici modulari attualmente disponibili sono sufficientemente flessibili da adattarsi alle necessità ricostruttive in relazione alla entità finale del difetto scheletrico, determinabile sono intraoperatoriamente. Un programma riabilitativo rigoroso ed intenso può essere iniziato precocemente dopo l'impianto, consentendo un recupero articolare e la ripresa del carico in tempi brevi. Il tasso di infezione postoperatoria e di trasmissione di malattie è minore che nel caso di impiego di innesti ossei di banca; non esiste poi alcun problema di integrazione dell'impianto con l'osso ospite. La durata dell'impianto nel tempo, le complicanze ed il risultato funzionale possono variare in relazione alla sede anatomica, al tipo di protesi ed alla tecnica di fissazione. Infatti, può verificarsi instabilità articolare, mobilizzazione asettica, infezioni tardive, cedimento meccanico delle componenti per fatica, usura dei materiali. Inoltre, la reinserzione delle strutture muscolotendinee alle componenti metalliche si presenta sempre difficoltoso.

TRAPIANTI E INNESTI OSSEI
Gli innesti ossei massivi costituiscono una metodica di ricostruzione di tipo biologico, con migliori teoriche potenzialità di durata nel tempo, elemento che li rende spesso preferibili agli impianti protesici. Altri vantaggi sono rappresentati dalla possibilità di conservare la porzione articolare sana e di stabilizzare la neoarticolazione, ricostruendone le strutture capsulari e legamentose. Dopo 3-5 anni dall'impianto, gli innesti vengono solitamente ben integrati, nonostante la frequente necessità di interventi chirurgici aggiuntivi volti ad ottenerne una valida stabilizzazione. Per questo motivo sono spesso preferiti gli impianti protesici. La potenziale migliore stabilità e funzionalità a lungo termine degli innesti ossei deve essere ben valutata nei pazienti giovani, esposti al rischio di multipli interventi di revisione protesica nel corso della loro vita. In alcune casistiche, le complicanze raggiungono quasi il 50% degli impianti; in particolare, sono rappresentate infezioni, fratture, instabilità articolare, ritardo di integrazione all'interfaccia innesto-osso ospite. A distanza di 5-10 anni possono poi comparire, nel 15% circa degli impianti osteoarticolari, importanti fenomeni di degenerazione artrosica. Deve essere comunque segnalato che gli innesti ossei massivi intercalari forniscono eccellenti risultati al lungo termine in oltre l'80% dei casi.

PROTESI COMPOSITE (TRAPIANTO + PROTESI METALLICA)
L'impiego di un impianto protesico di tipo composito può sfruttare gli innegabili vantaggi forniti sia dalle protesi che dagli innesti messivi diminuendo i rischi presenti nelle metodiche impiegate singolarmente. L'osso di banca permette di ricostruire la struttura scheletrica con ottimale reinserzione degli elementi muscolo-tendinei ed offre una buona stabilità della neoarticolazione. La componente protesica consente di evitare i potenziali processi degenerativi articolari, spesso causa di successivi ulteriori interventi di protesizzazione.

TECNICHE CON PARTICOLARI INDICAZIONI
a) Innesti autologhi vascolarizzati (con tecnica microchirurgica) Gli innesti ossei autologhi vascolarizzati possono essere prelevati dalla cresta iliaca, dalle coste, dalla scapola o dal perone, anche se solamente quest'ultimo viene eseguito per colmare gli estesi difetti conseguenti alle ampie resezioni scheletriche in ortopedia oncologica. Se paragonati agli innesti massivi, gli autotrapianti vascolarizzati offrono una più rapida integrazione, maggiore resistenza iniziale dovuta alla ipertrofia secondaria dell'innesto, in accordo con la legge di Wolff, e assenza di problemi immunologici o di trasmissione di malattie. Questo metodo di ricostruzione biologica, ideale per bambini o giovani adulti, possiede il teorico vantaggio di non dovere richiedere successive revisioni chirurgiche. Altre indicazioni degli innesti sono la ricostruzione in campi chirurgici poco vascolarizzati, quali quelli sottoposti a precedenti trattamenti radioterapici, o in quei casi nei quali è prevedibile un ritardo della guarigione a livello della sede di osteosintesi, a causa di radio e/o chemioterapia. Un innesto massivo di banca può essere anche associato al perone vascolarizzato, in modo da consentirne una migliore rivitalizzazione nel tempo. I principali svantaggi degli innesti vascolarizzati sono rappresentati dalla maggiore durata dei tempi chirurgici, dalla morbidità in sede di intervento (fratture, infezioni, ritardo di consolidazione, fratture da stress) e da limitazioni connesse alle dimensioni dell'innesto disponibile. b) Artrodesi Nel caso di resezioni extraarticolari o di estese demolizioni muscolari, tali da compromettere la funzione articolare residua, o quando sia indispensabile ottenere una assoluta stabilità dell'arto, vi può essere l'indicazione alla artrodesi, la quale unisce la suddetta duratura stabilità all'assenza di dolore locale. La fusione articolare può essere ottenuta utilizzando anche innesti massivi, innesti autologhi liberi o vascolarizzati, fissazione esterna con trasporto osseo o con la combinazione di tali metodiche. c) Protesi espandibili La protesi espandibili sono state sviluppate alla fine degli anni 80 nel tentativo di prevenire le inevitabili eterometrie degli arti nei pazienti in accrescimento. Tali impianti sono però di uso limitato, richiedendo contunui interventi chirurgici ed esponendo, nel 50% circa dei casi, a complicanze quali infezioni, mobilizzazioni o cedimenti dell'impianto protesico e complicanze neurologiche. d) Giroplastiche La tecnica della giroplastica, o plastica rotazionale, è riservata a quei pazienti scheletricamente immaturi, molto giovani, sottoposti ad ampie resezioni del ginocchio con possibilità di mantenere l'integrità del nervo sciatico. La tecnica è associata ad una bassa incidenza di complicanze, ad una durevole e funzionalmente valida ricostruzione ed al mantenimento della crescita dell'arto, che permette, in età adulta, una correzione della ipometria mediante protesi esterna senza dover ricorrere ad interventi chirurgici ulteriori. La proposta di questo tipo di intervento è spesso rifiutata o male accettata, cosicché si rende necessario un esauriente colloquio con il paziente ed i suoi familiari affinché possano chiaramente comprendere i vantaggi e l'aspetto "estetico" dell'arto ricostruito, riducendo così problemi psicologici o insoddisfazioni postoperatorie. Anche l'incontro con pazienti sottoposto ad analogo intervento risulta essere utile. e) Fissazione esterna con osteogenesi distrazionale L'allungamento dell'arto mediante osteogenesi distrazionale o trasporto di segmenti ossei riveste una limitata utilità se impiegata primariamente nella ricostruzione. Estesi difetti ossei sono infatti difficili da colmare con questa tecnica, richiedendo prolungati periodi di trattamento, associati a frequenti complicanze e scarsi risultati funzionali. Le tecniche di allungamento sono invece utili in aggiunta ad altri metodi ricostruttivi, per colmare piccoli difetti scheletrici o per correggere le eterometrie residue, ad accrescimento scheletrico terminato.

ASPETTI PARTICOLARI DELLA CHIRURGIA NEL PAZIENTE PEDIATRICO
In età pediatrica, devono essere sottolineati problemi aggiuntivi rappresentati dalle ridotte dimensioni dei segmenti scheletrici da protesizzare, con conseguente difficoltà nel reperimento di componenti protesiche adeguate, e dai processi di accrescimento cui il segmento operato andrà incontro. Il coinvolgimento articolare da parte di un sarcoma dell'osso è piuttosto raro, dato che le cartilagini di accrescimento e di incrostazione possiedono una intrinseca resistenza alla espansione della malattia; è possibile comunque che strutture anatomiche legamentose (ad esempio i legamenti crociati del ginocchio) possono guidare la crescita del tumore lungo di essi. Più frequente è la contaminazione articolare da biopsia non correttamente eseguita, per una frattura patologica del segmento interessato o per invasione diretta attraverso la capsula articolare. L'immaturità scheletrica al momento dell'intervento può comportare ipometrie anche di considerevole entità le quali, in casi estremi, possono far orientare l'indicazione chirurgica verso un trattamento demolitivo piuttosto che conservativo. Inoltre non deve essere dimenticata l'interferenza provocata dalla radioterapia sull'accrescimento anche delle strutture muscolo-tendinee, con conseguenti retrazioni e contratture. Per fare degli esempi, nei sarcomi del cingolo pelvico, dove la crescita ossea femorale avviene per circa l'80% a livello della sua porzione prossimale, non è da escludere l'indicazione ad una emipelvectomia piuttosto che una escissione ampia, magari fatta seguire da radioterapia. Anche la crescita della tibia avviene per l'80% circa nella porzione prossimale, cosicché dalla protesizzazione del ginocchio può risultare una ipometria della gamba. L'impiego di componenti protesiche tibiali non cementate, che non interferiscono con la zona metafisaria o elementi con fittone a superficie liscia, consente di evitare tale evenienza. L'alternativa a tali tecniche rimane l'innesto artrodesizzante. A livello dell'arto superiore una amputazione anche molto alta è da preferirsi alla disarticolazione, poiché la crescita omerale avviene per l'80% a livello prossimale. Nelle ossa lunghe, quando possibile, la resezione intercalare con risparmio della zona di accrescimento e ricostruzione mediante innesto massivo unito al perone autologo vascolarizzato consentono di limitare le ipometrie residue. Una ulteriore possibilità ricostruttiva è fornita dall'impianto del perone autologo vascolarizzato mantenendone la epifisi prossimale con la zona di accrescimento. Tale tecnica, ancora di limitato impiego, ha mostrato promettenti risultati. Attualmente è comunque possibile valutare la possibilità di accettare una eterometria, anche di notevole entità, programmando uno o più interventi di allungamento, mediante l'impiego di fissatori esterni.

CONCLUSIONI
In conclusione, è comunque doveroso segnalare che un intervento di "limb salvage" deve essere considerato ogniqualvolta ve ne siano le condizioni, consci dell'incremento del rischio di recidiva della malattia (da considerarsi elemento prognostico assolutamente sfavorevole "quoad vitam"specie nei sarcomi ad alto grado), della morbilità futura (per l'inevitabile usura dei materiali) e della non sempre migliore efficienza funzionale finale.

I TUMORI MALIGNI PRIMITIVI DELL'OSSO E LA BIOPSIA

I TUMORI MALIGNI PRIMITIVI DELL'OSSO E LA BIOPSIA
Autore: Prof. Fabio Lazzaro

I tumori primitivi maligni dell'osso sono da ritenersi una malattia rara, con incidenza pari allo 0,2% circa di tutti i tumori maligni (meno di 3000 nuovi casi per anno negli USA). Prima degli anni '70, il loro trattamento era affidato alla sola chirurgia, quasi sempre di tipo demolitivo (amputazione o disarticolazione dell'arto) e con tassi di sopravvivenza nell'ordine del 10-20%. Negli anni 80, con lo sviluppo di più efficaci farmaci chemioterapici e di protocolli di trattamento, tali tassi di sopravvivenza sono drasticamente migliorati, consentendo di focalizzare gli sforzi della ricerca sulla salvataggio dell'arto colpito dalla malattia (il cosiddetto limb salvage). Inoltre l'introduzione delle metodiche TAC e RMN ha consentito una più accurata visualizzazione della sede anatomica del tumore e i suoi rapporti con le strutture circostanti, cosicché la pianificazione preoperatoria della strategia di intervento è stata notevolmente perfezionata. Una migliore selezione dei pazienti, candidati a specifici e sempre personalizzati tipi di intervento chirurgico, ha comportato anche un decremento dei tassi di morbilità delle procedure bioptiche, che sono divenute sempre più mirate e meno invasive rispetto al passato. Attualmente l'80-90% dei pazienti con tumori maligni primitivi delle estremità, più frequentemente rappresentati dall'osteosarcoma, dal sarcoma di Ewing e dal condrosarcoma, possono essere trattati con sicurezza mediante resezioni ampie e ricostruzioni del segmento scheletrico operato funzionalmente valide.

LA BIOPSIA
Il riscontro di una lesione dell'osso o dei tessuti molli non richiede invariabilmente una biopsia. Infatti, la combinazione della storia clinica, della obiettività dei dati di laboratorio, laddove ritenuti indicati, e l'appropriata indagine strumentale permettono di porre un attendibile orientamento diagnostico nella maggior parte delle lesioni muscolo-scheletriche. Le lesioni che clinicamente o radiologicamente appaiono essere di natura benigna non richiedono alcuna biopsia, la quale è invece indicata in caso di lesioni benigne che abbiano comportamento aggressivo, nelle lesioni maligne e nei casi dubbi, per confermare la diagnosi clinica e porre le corrette indicazioni per il trattamento definitivo. La biopsia non deve essere dunque considerata una scorciatoia per la diagnosi, bensì la fase conclusiva dell'intero processo diagnostico. Essa deve infatti essere sempre preceduta da una accurata valutazione clinica e dall'attenta analisi dei risultati delle indagini strumentali eseguite. La diagnosi di una lesione muscoloscheletrica si basa infatti su questi tre parametri; nel caso in cui essi non diano risultati concordanti la diagnosi deve ritenersi dubbia. Nel passato, le biopsie venivano solitamente eseguite mediante ampi accessi chirurgici, con conseguente significativa contaminazione dei tessuti circostanti al tumore; se ciò poteva allora considerarsi trascurabile, visto che non vi erano alternative alla amputazione o disarticolazione, oggi un tale comportamento non è più giustificabile, visto che oltre il 90% dei pazienti viene sottoposto ad un intervento di tipo conservativo Una biopsia adeguata è dunque da ritenersi un elemento essenziale per il corretto trattamento dei tumori muscolo-scheletrici e deve essere eseguita solo dopo aver terminato lo studio per immagini della lesione, perché questo: 1) contribuisce alla diagnosi; 2) è necessario alla definizione dello stadio della malattia; 3) è importante per decidere tipo, sede e modalità del prelievo; 4) è essenziale per pianificare l'intervento chirurgico; 5) l'edema o l'ematoma locale possono alterare alcuni aspetti dello studio per immagini. Inoltre, deve essere eseguita solo quando si abbia ben chiaro il successivo iter terapeutico, per evitare errori che potrebbero comprometterne il corretto svolgimento, quali: collocare l'incisione bioptica in modo da non poterla poi includere ampiamente, senza rischi di lasciare residui di malattia, nel blocco della resezione chirurgica; dissecare ed aprire gli spazi intermuscolari, lo spazio attorno al fascio vascolo-nervoso, la cavità articolare, causando una contaminazione extracompartimentale; provocare ematomi che, diffondendo lungo il tessuto interstiziale e muscolare, possano contaminare con cellule tumorali altre sedi poste a distanza. Una biopsia eseguita in maniera inadeguata può fuorviare o ritardare l'ottenimento della diagnosi, avere un impatto negativo sulla sopravvivenza del paziente e costringere ad eseguire un intervento demolitivo per ottenere adeguati margini di resezione. Il numero di biopsie inadeguate eseguite al di fuori dei centri di riferimento per la patologia neoplastica sono purtroppo di frequente riscontro. Dal punto di vista della tecnica, la maggior parte delle biopsie si presenta semplice. Sono invece l'indicazione alla biopsia, l'identificazione della sede dove eseguirla e la via anatomica da seguire che fanno la differenza fra una biopsia significativa e, talvolta, una catastrofe.

POSSIBILITA' DI TRATTAMENTO DEI TUMORI PRIMITIVI DELL'APPARATO MUSCOLO-SCHELETRICO IN ETA` PEDIATRICA

POSSIBILITA' DI TRATTAMENTO DEI TUMORI PRIMITIVI DELL'APPARATO MUSCOLO-SCHELETRICO IN ETA` PEDIATRICA

Autore: Prof. Fabio Lazzaro
Divisione Specializzata di Ortopedia Oncologica - Istituto Ortopedico Gaetano Pini. Milano.

I tumori primitivi maligni dell'osso sono da ritenersi una malattia rara, con incidenza pari allo 0,2% circa di tutti i tumori maligni e 10 nuovi casi per milione di persone ogni anno. Gli istotipi maggiormente rappresentati sono l'osteosarcoma ed il sarcoma di Ewing, i quali colpiscono particolarmente l'età infantile ed adolescenziale. Assai più rappresentate in età pediatrica sono però le lesioni benigne e similtumorali (cisti giovanili, granuloma eosinofilo, cisti ossea aneurismatica), con frequenza relativa delle forme similtumorali circa doppia nel bambino rispetto all'età adulta. L'asportazione chirurgica è il metodo di scelta per il trattamento dei tumori che coinvolgano l'apparato muscoloscheletrico, con procedure diverse che possono andare dal curettage alla resezione o amputazione a seconda della sede, dello stadio e della natura della malattia. In accordo con i criteri di Enneking et al (Clin Orthop, 1980) deve essere sottolineato come la chirurgia con margini intralesionali (curettage, asportazione non "en-bloc") possa lasciare residui macroscopici o microscopici di malattia mentre quella con margini cosiddetti marginali (asportazione in blocco attraverso la pseudocapsula o la zona reattiva) esponga a rischio di lasciare lesioni satelliti o skip metastasis (noduli neoplastici localizzati all'interno della medesima struttura ossea sede del tumore ma non contigui ad esso); margini ampi (escissione in blocco attraverso tessuto sano) non consentono di evitare lesioni tipo skip. Solo se si è radicali (escissione di tutto il compartimento interessato) non si rischia di lasciare residui locali di malattia. La stadiazione preoperatoria è dunque fondamentale per stabilire l'estensione della lesione ed i rapporti con le strutture anatomiche al fine di consentire al chirurgo di decidere quali margini è possibile ottenere ed in quale maniera. In linea generale le lesioni benigne e similtumorali dell'osso possono essere trattate adeguatamente mediante una escissione sia intralesionale (curettage) che marginale. Le forma maligne richiedono invece una escissione ampia o radicale, sia essa una amputazione o una resezione in blocco. In quelle a basso grado in sede periostea o parostale è possibile essere maggiormente conservativi, ricorrendo ad emiresezioni ossee, mentre nelle forme centrali o in quelle ad alto grado deve essere eseguita la resezione segmentaria. Se l'amputazione è stato sino a qualche decennio fa l'unico approccio possibile al trattamento delle forme maligne ad alto grado, a partire dagli anni '80 si è assistito ad un aumento delle possibilità di attuare un approccio conservativo nella maggior parte di questi pazienti, grazie all'introduzione ed ai progressi della chemioterapia pre-e postoperatoria, della radioterapia, delle tecniche di imaging radiologico, delle tecniche e dei materiali chirurgici. La fase ricostruttiva del trattamento chirurgico prevede varie possibilità; innesti ossei autoplastici, vascolarizzati e non, o omoplastici, nelle emiresezioni o resezioni segmentarie in sede non articolare, protesi modulari o composite o trapianti massivi osteorticolari nel caso si debba sacrificare l'articolazione. Possono poi essere necessari tempi chirurgici sui tessuti molli per la copertura dell'impianto, eventuali trasposizioni muscolo-tendinee per ripristinare la funzione articolare. In età pediatrica devono essere sottolineate problematiche aggiuntive rappresentate dalle ridotte dimensioni dei segmenti scheletrici da protesizzare, con conseguente difficoltà nel reperimento di componenti protesiche adeguate, e dai processi di accrescimento cui il segmento operato andrà incontro. Il coinvolgimento articolare da parte di un sarcoma dell'osso è piuttosto raro, dato che le cartilagini di accrescimento e di incrostazione possiedono una intrinseca resistenza alla espansione della malattia; è possibile comunque che strutture anatomiche legamentose (ad esempio i legamenti crociati del ginocchio) possono guidare la crescita del tumore lungo di essi. Più frequente è la contaminazione articolare da biopsia non correttamente eseguita, per una frattura patologica del segmento interessato o per invasione diretta attraverso la capsula articolare. L'immaturità scheletrica al momento dell'intervento può comportare ipometrie anche di considerevole entità le quali, in casi estremi, possono far orientare l'indicazione chirurgica verso un trattamento demolitivo piuttosto che conservativo. Non deve essere dimenticata poi l'interferenza provocata dalla radioterapia sull'accrescimento anche delle strutture muscolo-tendinee, con conseguenti retrazioni e contratture. Per fare degli esempi, nei sarcomi del cingolo pelvico, dove la crescita ossea femorale avviene per circa l'80% a livello della sua porzione prossimale, non è da escludere l'indicazione ad una emipelvectomia piuttosto che una escissione ampia, magari fatta seguire da radioterapia. Anche la crescita della tibia avviene per l'80% circa nella porzione prossimale, cosicché dalla protesizzazione del ginocchio può risultare una ipometria della gamba. L'impiego di componenti protesiche tibiali non cementate che non interferiscono con la zona metafisaria o elementi con fittone a superficie liscia consente di evitare tale evenienza. L'alternativa a tali tecniche rimane l'innesto artrodesizzante. A livello dell'arto superiore una amputazione anche molto alta e da preferirsi alla disarticolazione, poiché la crescita omerale avviene per l'80% a livello prossimale. Nelle ossa lunghe, quando possibile, la resezione intercalare con risparmio della zona di accrescimento e ricostruzione mediante innesto massivo unito al perone autologo vascolarizzato consentono di limitare le ipometrie residue. Una ulteriore possibilità ricostruttiva è fornita dall'impianto del perone autologo vascolarizzato mantenendone la epifisi prossimale con la zona di accrescimento. Tale tecnica, ancora di limitato impiego, ha mostrato promettenti risultati. Attualmente è comunque possibile valutare la possibilità di accettare una eterometria, anche di notevole entità, programmando uno o più interventi di allungamento mediante l'impiego di fissatore esterno. In conclusione è comunque doveroso segnalare che un intervento di "limb salvage" deve essere considerato ogniqualvolta ve ne siano le condizioni, consci dell'incremento del rischio di recidiva della malattia (da considerarsi elemento prognostico assolutamente sfavorevole "quoad vitam"specie nei sarcomi ad alto grado), della morbilità futura (per l'inevitabile usura dei materiali) e della non sempre migliore efficienza funzionale finale.